
Avevo scritto all’Accademia della Crusca se in italiano potevamo usare la parola parroca per tradurre Pfarrerin, poiché prete significa che qualcuno ha ricevuto l’ordinazione e può presiedere la celebrazione della messa ma parroco è un incarico: un prete può essere un professore universitario, un insegnante a scuola o essere un parroco di una parrocchia. Prete e parroco non sono la stessa cosa. Così volevo la conferma dell’Accademia che la scelta di definirmi parroca fosse linguisticamente corretta. In Italia e nel mondo l’Accademia della Crusca è uno dei principali punti di riferimento per le ricerche sulla lingua italiana. Sorta alla fine del 1500 a Firenze, il suo nome indica il lavoro di ripulitura della lingua.
Parroca, per l’Accademia, è più che adatto e qui sotto potete leggere per intero la risposta. Questa risposta,
però, pubblicata anche sulla pagina Facebook dell’Accademia ha scatenato un acceso dibattito. Non
linguistico, bensì maschilista da un lato e bigotto e accusatorio dall’altro, contro gli “eretici” che osano ordinare le donne. Se i post dell’Accademia avevano di solito 20-25 commenti, questo in 24 ore ne aveva quasi 450 e le condivisioni da 8 o 9 per gli altri post sono schizzate a quasi 150 condivisioni! Questo comunque nel bene o male è pubblicità per noi perché il post riporta il link del nostro sito web. Detto questo, di tutti i commenti vi riporto solo quello della pianista e compositrice italiana (ma formata in Germania) Nelly LiPuma che mi sembra il più illuminante: “mi sembra sconcertante che in Italia nessun@ opponga resistenza all’uso di termini stranieri che poi, tra l’altro, nessun@ sa pronunciare correttamente, ma, non appena si tratta di usare il femminile, cominciano critiche, rifiuti e battute di ogni genere. Davvero irrazionale questa resistenza di fronte alla realtá che al mondo esistono anche le donne!”
Qui la risposta integrale dell’Accademia.
Nel riproporre il ben noto e dibattuto tema del femminile dei nomi cosiddetti “professionali”, la nostra interlocutrice ci pone di fronte a un quesito assai interessante, anche perché inedito entro i nostri confini nazionali, dove siamo al riparo dalla necessità di declinare al femminile parroco, dato che la Chiesa cattolica romana non concede alle donne (almeno per ora) di accedere al sacerdozio. Naturale però che questa necessità si manifesti nell’ambito della Chiesa cattolica cristiana della Svizzera che, a partire dal
1999, ammette a tale ministero anche le donne. Ed è del tutto lecito che la signora T. rivendichi l’utilizzo del
femminile parroca e, con solide argomentazioni, rifiuti la traduzione pastora, termine forviante che rimanda alla dottrina protestante, e crea peraltro una diffrazione del tutto illogica rispetto alla corrispondente forma femminile Pfarrerin, già in uso presso i fedeli di lingua tedesca della stessa comunità cattolica cristiana della Svizzera.
Del resto, dal punto di vista grammaticale, la forma parroca non presenta nessun particolare problema,
appartenendo alla serie dei sostantivi femminili in -a corrispondenti a maschili uscenti in -o, che già annovera numerosi nomi di mestiere, dai tradizionali maestra e cuoca a quelli di introduzione più recente e ormai acclimatati come sindaca. Parroca è insomma una forma del tutto legittima e tale da non entrare in competizione con possibili alternative, diversamente da quanto accade ad altri termini femminili di ambito religioso che sollecitano qualche ulteriore riflessione. Pensiamo a prete, appartenente alla classe ambigenere in -e e quindi già potenzialmente femminile (si dirà la prete, come si dice la custode, la preside), al quale però la stessa nostra interlocutrice affianca il dotto e inequivocabilmente femminile presbitera; e anche diacona che, per quanto grammaticalmente ineccepibile al pari di parroca, subisce la concorrenza dell’antico diaconessa (dal tardo latino diaconissa a sua volta derivato dal greco diakonìssa).